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La prima volta che ho ascoltato The Lord Of Steel ho avvertito le stesse sensazioni che provavo da bambino quando scartavo i regali la mattina di Natale. Ovviamente quando ero ancora convinto che li portasse un ciccione vestito di rosso con la barba bianca. Ma il discorso sulla sospensione dell’incredulità, grazie a Odino, lo ha già fatto Charles, risparmiandomi e risparmiandovi un bel po’ di elucubrazioni in merito. Anzi, il suo post, il mio e quello che scriverà prima o poi Roberto li potete vedere come un’unica grande recensione scritta dall’inconscio collettivo del blog. Perché, vedete, noi i Manowar li prendiamo sul serio. Che non è una cosa scontata. Al netto degli haters che, appunto, gonna hate e per i quali non possiamo non provare un po’ di sincera compassione perché evidentemente hanno sbagliato qualcosa di grosso nella vita, per una larga fetta del pubblico heavy Joey DeMaio e compagni sono dei culturisti ultracinquantenni con le mutande di pelliccia che avranno pure fatto dei bei dischi ma culturisti ultracinquantenni con le mutande di pelliccia restano. Un po’ come lo zio scapolo un po’ strambo che al pranzo di famiglia si presenta con l’amichetta russa di vent’anni più giovane, racconta barzellette sconce, rutta, passa le sigarette alla nonna di nascosto e la finisce ubriaco fradicio a giocare con il nipotino. Tutti sorridono condiscendenti, tutti gli vogliono bene ma si sentono in dovere di giustificarsi imbarazzati di fronte al genero in giacca e cravatta che lavora per la Morgan Stanley. L’unico che lo adora sinceramente e lo capisce davvero è il nipotino, al quale promette sempre che appena sarà abbastanza grande gli farà guidare la sua Harley e gli presenterà qualche giovane cugina della russa di cui sopra. Ecco, noi siamo quel nipotino.
Da un certo punto di vista, i Manowar sono il gruppo della mia vita. Non il mio gruppo preferito, attenzione. Ma il gruppo della vita. Quello che mi definisce non tanto rispetto alla gente normale, quella che non sa cosa si perde, quanto rispetto alla maggior parte dei metallari, per i quali quei testi composti dalle solite venti o trenta parole ricorrenti sono solo una caterva di stronzate ridicole e puerili. Gli Slayer sono sempre stati un discorso principalmente musicale. Come ho scritto altrove, scesi dal palco tornano nella custodia come i loro strumenti. I Manowar sono una visione del mondo, un modo di prendere le cose. More than just a band. Gli unici che posso avvicinargli come concetto sono i Pantera. Che però sono soprattutto il simbolo di un’attitudine che vedo perduta nelle nuove malcapitate generazioni e quindi mi picco di portare avanti da bravo barbogio passatista. Ma a comprendere come A New Level sia il brano motivazionale per eccellenza ci arriva chiunque. Capire i Manowar, capire perché gente come noi ama così tanto i Manowar, no, non è roba da tutti.
Infatti non pretendo che ognuno di voi capisca perché nei momenti peggiori una delle poche cose che mi faccia stare veramente bene sia Eric Adams che mi dice Forever carry on. O perché in quelli migliori mi senta Tall like a mountain poiché Greatness waits all those who try. O ancora perché periodicamente mi frulli nella capoccia di aggiungere ai miei tatuaggi, sul bicipite ancora libero, il Sign of the Hammer con sotto la scritta Stand and Fight. E alla fine un giorno lo farò, ché Nicolai Lilin ci insegna che le cose veramente significative si incidono sulla pelle solo dopo i quarant’anni. Stand and fight/ Live by your heart/ Always one more try/ I’m not afraid to die. A voi magari sembra una cazzata. Beh, se avete qualcosa di più efficace per ricordare a voi stessi che ogni giorno è una lotta per tirare fuori la parte migliore di noi, per non cedere all’apatia e all’autoindulgenza, per andare avanti qualunque cosa accada e incassare a testa alta ogni colpo infertoci da quella quotidiana guerra che è l’esistenza fatemi sapere. Poi, certo, c’è anche il lato goliardico e cazzone. Quello di woman be my slave. Quello dell’intro di Warlord. Sono il primo a rendermi conto che sono anche culturisti ultracinquantenni con le mutande di pelliccia. Ma nella quotidiana guerra di cui sopra ci deve essere spazio anche per la birra e le tette, sennò sai che palle.
Ah, già, il disco. Si è beccato un sacco di stroncature. Quelli come noi che prendono la band sul serio, invece, non aspettavano altro. Ciò che me lo ha fatto amare da subito è proprio il suo essere così basilare e diretto. Gods Of War era stato, diciamo, il mio disco meno preferito dei Manowar. Troppo prolisso e sbrodolone. Non so perché abbiano fatto uscire per prima questa cosiddetta Hammer Edition in digitale per poi pubblicare l’album a settembre. Magari cambierà la produzione. Ma a me va bene anche così. Grezza, con il basso fracassone. Per quello che è l’approccio di The Lord Of Steel, anthemico e rock’n'roll come non era stato manco Louder Than Hell, il platter più vicino a livello filosofico, va strabene. Questi pezzi mi si sono stampati in testa al primo ascolto e non mi hanno più abbandonato. Riff semplici e scontati ma proprio per questo meravigliosi. Ritornelli da fomento immediato. Davvero non concepisco come in tour non stiano dando spazio a inni da stadio come la spettacolare Born In A Grave o la stessa title-track. Il fatto che non stiano probabilmente credendo appieno in questo lavoro mi destabilizza. Ok, non tutti saranno in grado di andare in solluchero per l’autocitazionismo spinto di Hail, Kill And Die o di esaltarsi per adorabili tic come l’AH! del ritornello di El Gringo. Certo, non sarà la loro prova migliore. La curiosamente sabbathiana Black List o il lentone di prammatica Righteous Glory (sono l’unico a cui l’arpeggio iniziale ricorda The Years Of Decay degli Overkill?) ogni tanto fanno premere il tasto skip anche a me. Ma chi se ne frega. È uscito un nuovo album dei Manowar e io sono contento. Disco dell’anno, a prescindere. (Ciccio Russo)
Questo umile articolo è dedicato alla memoria di Scott Columbus:
Take me to Valhalla.
Where my brothers wait for me
Fires burn into the sky
My spirit will never die